Un filosofo viene
tutto modesto, e dice:
– Si vuole a poco a poco,
pian pian, di loco in loco,
toglier gli errori dal mondo morale:
dunque ciascuno emendi
prima se stesso, e poi degli altri il male. –
Ecco un altro che grida :
– Tutto il mondo è corrotto
si dee metter di sotto
quello che sta di sopra; rovesciare
le leggi, il governare;
fuor che la mia dottrina,
ogni rimedio per salvarlo è vano. –
Badate all’altro; questi è un ciarlatano.
Nella famosa chiusa dell’ode di Giuseppe Parini intitolata I ciarlatani il grande intellettuale lombardo delinea il profilo di una cultura riformista, fondata su un’azione morale, ma soprattutto su un gradualismo che porti ad interventi di correzione del mondo mai radicali e urlati, bensì frutto di una sapiente opera di previsione, preveggenza, intervento politico.
Il “filosofo” che Parini ci indica come serio e sensato è quello che privilegia anzitutto l’azione di emendamento rivolta a se stessi, prima ancora di rivolgersi all’azione sociale. Soltanto da un’azione di propria revisione morale può risultare credibile ed essere accettata anche l’azione di emendamento del “male altrui”.
E’ questa l’essenza della cultura riformista, cui noi, il partito democratico, avremmo dovuto guardare con maggiore attenzione negli anni che ci hanno visto operare in una difficile maggioranza politica che ha guidato per sei anni il nostro Paese.
Quando fallì l’esperimento del primo centrosinistra, ai tempi del governo Fanfani, negli anni ’60, si parlò di una fase storica caratterizzata da una stagione di riforme senza Riformismo; qualche anno dopo, quando si affacciò alla politica italiana l’esperienza del Partito socialista di Bettino Craxi, si disse di un’esperienza di Riformismo ma senza riforme.
Chi scrive è il primo ad aver pensato alla stagione del centrosinistra e del Partito democratico degli ultimi dieci anni come a una nuova stagione di riforme, che si auspicava potessero accompagnarsi a un cultura riformista. Ma evidentemente così non è stato. Il risultato elettorale, deludente, pur in presenza di un cospicuo contingente di interventi legislativi di riforma, sta lì a dimostrarlo.
I sei anni che abbiamo appena lasciato, con le recenti elezioni del 4 marzo 2018, sono sì stati il contesto temporale di una serie di riforme importanti, oltretutto intese nel senso di una reale stagione di ammodernamento della macchina statale, dei mercati e di importanti settori della società. Purtroppo, abbiamo però mancato nella cultura riformista che potesse e dovesse affiancarsi a tale fase di riforme.
Siamo apparsi come quei rivoluzionari napoletani ripresi da Vincenzo Cuoco nel famoso Saggio storico sulla Rivoluzione di Napoli del 1799: agitatori un po’ astratti, incapaci di indicare elementi di orientamento che portassero a completamento il processo rivoluzionario. Tali elementi di orientamento avrebbero dovuto essere (almeno per noi, nel periodo che va dal 2013 al 2017) il libretto delle istruzioni delle riforme avviate e votate in sede legislativa. Una sorta di vademecum del progetto riformista.
Invece no. E’ mancata proprio la cultura riformista a dare un senso, e una comprensibilità, all’azione di riforma politica e sociale che giustamente abbiamo avviato: in ambito economico, in ambito sociale e istituzionale.
L’avvisaglia, addirittura macroscopica, di tale carenza culturale l’abbiamo avuta quando, lo scorso 4 dicembre 2016, è stato bocciato nel referendum confermativo un progetto di riforma costituzionale che in sé era del tutto accettabile e logico: ammodernava il Paese, riduceva enti inutili e un Senato doppione della Camera (unico esempio in Europa), rendeva possibile una alternanza effettiva tra schieramenti con l’associata legge maggioritaria unicamerale. La carenza culturale è imputabile non al solo segretario del Partito democratico, sia chiaro, ma a un’intera classe dirigente (e non solo del Partito democratico): imprenditori, categorie sociali, associazioni professionali, sindacati avrebbero potuto (e dovuto) spendere una parola di verità circa quel progetto di ammodernamento del Paese, ma non lo hanno fatto, pur condividendone in larga parte i tratti (e con poche eccezioni: la CGIL, almeno una sua parte, l’ARCI, altre associazioni di minor conto).
La cultura riformista non è sopraggiunta nel difendere questa come tante altre iniziative di riforma legislativa avviate dalla maggioranza parlamentare a guida democratica.
E poi, la vera carenza di cultura riformista è stata quella interna al Partito democratico, non del solo segretario politico, sia chiaro. Non abbiamo saputo (o forse voluto) interpretare quel motto sul riformismo che Giuseppe Parini ci aveva dedicato sin nel 1761. Chi ha intenzione di emendare il male dal mondo morale (leggi, la società e la sua corrotta organizzazione che genera ingiustizia e quindi malessere) anzitutto deve esercitare su di sé il medesimo rigore: “prima se stesso e poi degli altri il male”.
Non significa che avremmo dovuto agire come in un tribunale giacobino, tutt’altro. Significa che quanti abbiano intenzione di avanzare un serio programma di riforme si devono anzitutto predisporre a una seria azione di autovalutazione, di verifica delle proprie intenzioni, di previsione attenta delle conseguenze delle proprie azioni. Al contrario, in molti casi siamo apparsi sì come entusiasti artefici di una seria azione che mirasse a modificare le condizioni di vita dei cittadini italiani, ma non altrettanto disponibili a riformare noi stessi, le liturgie e i riti della nostra politica.
L’intervento di soppressione delle società partecipate, ad esempio, è risultato quasi inconsistente, e agli occhi dei cittadini tale inconsistenza è sembrata una scarsa volontà del ceto politico di intervenire laddove esso poteva alimentare rendite e drenare risorse nei consigli di amministrazione.
Non che chi ha vinto disponga di una tale cultura politica. tutt’altro. Ma questo sarebbe il tema di un altro intervento, che necessiterebbe molte pagine di riflessione. Leghisti, grillini, fratellini d’Italia si sono rincorsi nel comportamento che Giuseppe Parini attribuisce ai ciarlatani: rovesciare le leggi, capovolgere il mondo, propugnare la propria come l’unica dottrina accettabile; insomma, un radicalismo ideologico che non porterà di certo prosperità e pace sociale.
E tuttavia, oggi come nel 1994 o nel 2001, la propaganda populista, le promesse demagogiche hanno permesso ai ciarlatani del momento di conquistare un potere politico di cui non sapranno servirsi proprio per emendare quel mondo morale su cui occorrerebbe un serio intervento, soprattutto nel nostro Paese.
Riflettiamoci, riflettiamoci insieme. Prima se stessi e poi degli altri il male.
Terrore e imprenditori politici della paura
I professionisti della comunicazione della paura, gli imprenditori del lutto, i Salvini, i Lepen, i La Russa di turno, che sperano di beneficiare lautamente dalla tragedia islamista di Parigi, dopo l’attentato terroristico ieri a un giornale satirico, avranno stappato bottiglie di champagne, per brindare alla fortuna, un po’ come fanno certi ecologisti dopo ogni esplosione di una centrale nucleare.
Incassato il dividendo del terrore, ora penseranno di passare all’incasso di una solenne cambiale che la storia ha firmato loro. E tuttavia, dietro le dichiarazioni di guerra guerreggiata, dietro le rodomontate dei crociati “de noantri”, si nasconde il vuoto ermetico di un cinico, ma privo di intelligenza storica, utilitarismo miope. Si immaginano a cavallo di una pressione emotiva di portata continentale, forse la signora Le Pen sta già sfogliando il catalogo delle tendine da scegliere per arredare ex novo l’Eliseo, e tuttavia nella loro pretesa (o presunzione) di incarnare lo spirito pubblico dal quale già si sentono investiti di un ruolo nazionale, essi stanno stonando, e la loro stonatura emerge sopra tutto il silenzio che invece il lutto ha generato, a Parigi come in Italia, come in tutta Europa.
Sarebbe necessaria riflessione e ponderazione, in questi giorni, e invece questi imprenditori del lutto stanno già urlando, chiedendo guerra, la crociata, addirittura (testuali parole, specificamente di Matteo Salvini, leader inetto al ruolo) chiedono la fine della tolleranza.
Non si accorgono neppure che, nel momento in cui accettassimo il loro punto di vista, ovvero nel momento stesso in cui dicessimo basta alla tolleranza, sanciremmo la vittoria dei terroristi dell’Isis, perché avremo rinunciato allo specifico culturale dell’Occidente; saremmo diventati come i terroristi dell’Isis, e avremmo rinunciato alla nostra identità di occidentali.
Questo, tra tutto, indispone gli integralisti islamisti dei connotati della cultura occidentale: l’essere libera, tollerante, laica, non fondamentalista. Quando fossimo anche noi arruolati nelle file di un fondamentalismo (di qualsiasi religione volessimo), avremmo subito la nostra principale sconfitta.
In nome della lotta ad ogni fondamentalismo, quindi, continuiamo a dichiararci liberi, laici, tolleranti. Salvini e la Russa se ne facciano una ragione.
L’incertezza filologica ai tempi di Internet. Diffamazione e ingenuità nell’opera pubblica del sindaco di Cantù
Quindi abbiamo assistito a una vera e propria opera di esegesi collettiva, uno sforzo di portata filologica degno di Lorenzo Valla, solo che questa volta una decina di utenti FB, non sulla Costitutum Constantini (il famoso Discorso di Lorenzo Valla sulla Donazione di Costantino da falsari spacciata per vera e con menzogna sostenuta per vera), si sono esercitati su una non meno contorta (ma attuale) opera di falsificazione concettuale.
Su un gruppo FB dedicato alla vita comunale del Comune di Cantù, viene condiviso un post del sindaco cittadino, solito a inveterate e furiose invettive. Una foto terribile, il famoso autonomo che imbraccia la P38, scattata nel 1977, serve da commento iconico di un post al vetriolo, in cui il di sopra scrive contro Gad Lerner, reo di averlo definito “inadeguato”: “Cavolo, mi è andata proprio bene! Quarant’anni fa, per molto meno, lui [sarebbe Gad Lerner] e i suoi compagni della “sinistra al caviale e cachemire”, mi avrebbero riservato lo stesso trattamento che riservarono al commissario Calabresi”.
Tempo due ore e la foto viene cambiata, troppo cruenta e violenta, quella pubblicata prima, e il testo riscritto: “mi avrebbero riservato ben altro trattamento (tipo quello che sul loro giornale riservarono al commissario Calabresi)”.
Nel primo testo, un accenno all’assassinio del commissario ucciso nel 1972, con la chiara identificazione vittimistica del sindaco; nel secondo caso l’accostamento è alle critiche pubblicate su diversi quotidiani contro lo stesso commissario, pima della sua uccisione.
I rischi di una querela per diffamazione sono quindi evitati, egli deve aver pensato.
Ma la rete non perdona e le ripetute correzioni e cancellazioni del post del sindaco sono la causa di una investigazione a più mani, che porta intanto a recuperare lo screenshot del primo post, miracolosamente salvato dal labor limae del suo autore, e poi a comprendere il senso della correzione.
Che è il senso della vergogna. Il suo autore deve essersi reso conto di aver ecceduto, e che tale esagerazione avrebbe potuto portargli qualche fastidio, anche nella sua reputazione, ultimamente alquanto malmessa, e quindi è ricorso alla variante d’autore. Ma la variatio è una prassi che andrebbe compiuta prima e non dopo la pubblicazione, perché quando si mostra pubblicamente rende evidente l’intenzione di chi scrive, in questo caso l’intenzione di diffamare senza però il rischio di finire in Tribunale. E quindi, con tanta superficialità, il sindaco ha ulteriormente incrinato la propria pencolante reputazione pubblica. Il quotidiano cittadino infine ha colto, per quanto in parte, l’affannosa opera di correzione e l’ha resa nota a un pubblico più vasto.
Un consiglio al sindaco di Cantù. Torni a usare carta e penna.
Il bene come promozione nel marketing politico
Trovo penosa la nuova prassi che emerge dal sistema comunicativo globale, e che anche a Cantù sembra trovare molti adepti: fare una buona azione, ma solo se in presenza del fotografo e magari del giornalista che celebri tanta bontà.
Possibile che non ci si renda conto che tale spocchiosa buona azione è miserella, per non dire sospetta?
Rammento quanto diceva un grande, un uomo che fu uomo non solo nello sport, Gino Bartali: “Il bene si fa, ma non si dice. E certe medaglie si appendono all’anima, non alla giacca.”
Il candidato (quasi) convinto che Rubi rubacuori fosse la nipote di Mubarak
L’onorevole Nicola Molteni, Lega Nord, è ormai ufficialmente il candidato Sindaco di quel partito per le elezioni comunali di Cantù. Figura poco esposta, tenterebbe oggi di ricostituire una presentabilità del suo partito e di se stesso davanti ai cittadini canturini, che davvero conoscono assai poco della sua attività politica e parlamentare. Giova un promemoria, giusto per capire come ha votato e quali responsabiltà si è assunto in passato.
Andiamo a ritroso nel tempo. Non sappiamo come abbia votato nell’autorizzazione all’arresto del parlamentare accusato di associazione camorrista Nicola Cosentino. Però sappiamo che ha votato contro la mozione di sfiducia contro il ministro Saverio Romano (contribuendo così a salvarlo), accusato di concorso in attività mafiose. E allo stesso modo ha contribuito a salvare dall’arresto l’onorevole Marco Milanese, accusato di associazione a delinquere, corruzione e rivelazione di segreto d’ufficio e contro la sfiducia al ministro Bondi. Ha votato a favore delle missioni militari italiane (Afghanistan, Kossovo, Libano, altre…) e ha cercato di affossare la legge contro l’omofobia. Ma ha votato contro la soppressione delle provincie, durante il governo Berlusconi. Si è dimostrato favorevole all’introduzione in Italia dell’energia nucleare; decisione che a seguito i cittadini hanno bocciato con referendum popolare. Si è dimostrato un fautore del processo breve: soprattutto breve per il presidente del Consiglio, Sivio Berlusconi, che graize a tale abbreviazione forse avrebbe potuto scansare qualche condanna. Però, visto che il processo breve da solo non sarebbe bastato, ha votato anche a favore del processo lungo, cosiddetto, con il quale allungare i tempi di durata dei dibattimenti in altri processi che interessavano il premier d’allora. La coerenza non abita da quelle parti…
Ma il miracolo politico di Molteni sta nel suo voto sul caso Ruby: egli, ispirato da certezze internazionali quanto mai fondate, ha votato contro la competenza della Procura di Milano a tale iniziativa giudiziale, dichiarando ufficialmente che la fanciulla in questione fosse la nipote del presidente egiziano Mubarak. La sua grande performance risale all’inizio della legislatura. Qui egli, con l’intero gruppo della Lega Nord, riesce a infiorettare uno dietro l’altro: la legge sul legittimo impedimento, la legge sullo scudo fiscale, la legge sul terremoto d’Abruzzo (quella pro Baldini e “cricca” di palazzinari romani…), la legge sulle quote latte (per cui oggi l’Europa multerà il nostro paese), la riforma Gelmini dell’università, la legge salva banche, il Lodo Alfano (per salvare Berlusconi, un’altra volta), la legge per l’emergenza dei rifiuti in Campania (ulteriore bell’esempio di coerenza leghista) e infine la legge per il salvataggio dell’Alitalia. Ecco come ha votato l’onorevole Molteni negli ultimi tre anni: certo, spesso per disciplina di partito, a volte per salvare il presidente del consiglio del suo governo. Saperlo può autare, per comprendere il cinismo con cui si vuole far dimenticare responsabilità recenti, i cui effetti ricadono ancora sul presente, anche dei cittadini di Cantù.
I dilemmi del centro destra comasco in vista delle elezioni comunali
È impressionante la somiglianza della riflessione di Miglio con quella dei teorici dell’autonomia del politico degli anni 70 del secolo scorso: “La classe politica è sempre qualcosa che trova un suo punto di riferimento; borghesia, classe operaia sono soltanto classi serventi”, scriveva il politologo comasco molti anni fa. Dallo spunto di Gaetano Mosca, egli approfondiva il perché di tale autonomia, ribadendo la nozione di ceto politico come di un’élite espressione della società nel complesso, non di specifiche classi sociali. Un ragionamento che, da posizioni diverse, antitetiche direi, anche un altro formidabile studioso della politica, il francese Maurice Duverger, proponeva qualche anno prima, trattando del mascheramento del ceto politico per merito dell’assunzione di un profilo ideologico: se la lotta politica si svolge entro una cerchia non molto ampia, “tra persone avvedute”, il mascheramento è inutile: “Non è ai vecchi lupi che bisogna insegnare a urlare: si potrebbe anche paragonarli agli antichi àuguri, che non potevano guardarsi in faccia senza ridere, perché consocevano bene le loro bugie”.
Il Pdl comasco sta dimenticando questa basilare visione: come tra vecchi àuguri, viene da ridere a sentire discorsi che hanno il solo compito di dilazionare il momento di una scelta: chi sarà il candidato Sindaco che si presenterà alle imminenti elezioni? Dire, come fa il pre-candidato Traglio: io mi candido solo se vi è l’unanimità sul mio nome, è segno della massima debolezza. Significa dare a chiunque abbia un minimo di voce nel Pdl di Como un potere d’interdizione massimo. Dal lato opposto, vi sono alcuni (su tutti, l’assessore Gaddi) che indicano nelle elezioni primarie il passaggio obbligato per una selezione del miglior candidato.
Altro limite: la titubanza della dirigenza del partito verso le elezioni primarie è segno che tali elezioni non le vuole. Anzitutto perché rappresenterebbero un passaggio complesso e di difficile gestione; in secondo luogo perché le primarie potrebbe vincerle proprio Gaddi (sembra proprio il candidato ideale per tale competizione), e questo creerebbe tanti problemi proprio alla dirigenza del partito in cui lo stesso Gaddi milita. Sarei quindi propenso a ritenere che questo mezzo di selezione del personale non sarà utilizzato. E dire che le primarie risponderebbero all’assunto di Miglio per dare stabilità al sistema politico comasco: “Riducendo il numero di coloro che aspirano e lottano per il potere, si consolidano i sistemi politici”. La destra italiana le ha svalutate per una sorta di azione riflessa: le utilizza il centro sinistra, quindi non possono andare bene per noi. Invece, esse sono uno strumento neutro e la prova ci viene dagli Stati Uniti di questi giorni, con i candidati repubblicani impegnati a sfidarsi per definire il proprio miglior candidato da contrapporre a Obama.
E tuttavia, per le ragioni su esposte, Il Pdl comasco non seguirà probabilmente questo modello. Si contorcerà in una serie di azioni di dissuasione e d’interdizione, per giungere a definire (non si sa bene come) il proprio candidato. Una previsione: badiamo al fattore Tempo, è a esso che si deve far ricorso per capire quale sia il progetto con il quale pervenire alla sospirata conclusione di “consolidare il sistema politico”. Chi oggi detiene la massima responsabilità nel Pdl a Como, ha la maggior disponibilità di tempo, può permettersi quindi di dilazionare scelte e momenti decisionali. In ambito aziendale si tratta di una tecnica di gestione dei conflitti che va sotto il nome di management by exception (gestione delle emergenze, in questo caso l’emergenza riguarda il tempo). Il momento della scelta definitiva finirà a ridosso della data ultima per presentare una candidatura, a quel punto un intervento risolutivo dall’alto farà cadere la decisione sulla figura che meglio risponderà alle esigenze dell’attuale assetto di vertice del partito (l’asse politico tra il senatore Butti e l’area politica dell’attuale sindaco di Como, Bruni). Il Pdl avrà sprecato una buona occasione per agire in trasparenza se così accadesse, ma avrà certamene garantito una continuità all’attuale assetto di potere citttadino.
L’eclissi del “moderato”
La politica italiana e la sindrome di Pinocchio
PD: ripensare i propri dirigenti
E spesso, il tanto atteso personaggio si manifesta nei panni di un politico d’importazione, come appena successo a Milano, o come accaduto in Puglia. E che magari sarebbe anche capace di vincere contro il sindaco Moratti, quanto mai in caduta nel gradimento dei cittadini di Milano.